La passione per la grappa nasce nella piccola vigna di mio padre. La vinaccia, allontanata nei campi dopo essere stata spremuta, continuava ad esalare profumi interessanti e anche sulla terra riuscivo a ricondurli al vitigno di provenienza. Iniziai a studiare la storia della distillazione, l’evoluzione impiantistica, i vari alambicchi, ma rimasi sempre convinto che il fuoco diretto fosse il metodo migliore per esaltare i profumi della materia.

Non è facile distillare a fuoco diretto, occorre un naso particolare, bisogna concentrarsi sulle prime esalazioni per capire se la cotta è “partita” bene. Basta poco per bruciare tutto e rovinare l’alambicco.  Non ci sono strumenti che controllano la qualità della borlanda, il termometro è solo un aiuto per la separazione della testa ed avverte, poco prima del gocciolamento, che è ora di concentrarsi di più.

L’aspetto alchemico del processo è diretto come il fuoco che lambisce la caldaia, la trasformazione della materia è totale, il doppio passaggio di stato si percepisce direttamente. Il dosaggio del fuoco deve essere fatto con maestria: alto all’inizio, poco più basso alle prime esalazioni, un pochino più alto per togliere la testa, basso per “accarezzare” ed estrarre il cuore. Spento per la coda che lascio in caldaia.

Ma è dopo la distillazione che si fa la grappa. La borlanda, il risultato della distillazione, ha sempre un carattere proprio che tramite sapori e aromi, racconta il vitigno, il processo agricolo, le lavorazioni in campo, i fenomeni della stagione trascorsa. E’ qui che il mastro distillatore decide se e come miscelare le borlande dei vari vitigni, individua la migliore gradazione finale per armonizzare aroma e corpo, taglia e, se ritenuto opportuno, aggiunge quel poco di zucchero che serve per rendere più morbida la degustazione.